La cronaca del Masaniello, l’agitatore partenopeo che, iniziando dal commercio ittico, si trasformò in condottiero della sommossa napoletana del 1647, è un aneddoto coinvolgente e complesso che merita attenzione. Giunse fino al delirio e al trapasso per mano di coloro ritenuti suoi sodali, ma la sua icona persiste simbolo di ammutinamento e ricerca dell’equità.
Tommaso Aniello d’Amalfi, maggiormente denominato Masaniello, era un fanciullo focoso e vulcanico. Nacque a Napoli nel 1620, in un’abitazione poco discosta dalla frequentata piazza della vendita. Allevato in un nucleo familiare umile, si procacciò sostentamento quale vendugliolo di pescato nella medesima piazza.
La Napoli del Seicento era una città afflitta da profonde diseguaglianze sociali e da un ordinamento governativo oppressivo. La pluralità dei circa 350.000 napoletani dell’epoca era costituita da individui derelitti e sudditi. Tali persone erano dissanguate dalle imposte, emarginate da ogni occupazione pubblica e preda di un sistema amministrativo egemonizzato dalle sette progenie nobiliari: principi, duchi, marchesi, conti, baroni, patrizi e signori.
Il viceré, che governava Napoli per conto del re Filippo IV di Spagna, deteneva il dominio su tutti. Masaniello prediligeva il re, ma riteneva ingiusta la condizione del suo popolo. La sua indignazione crebbe giorno dopo giorno, alimentata dalla sofferenza circostante e dalla consapevolezza di quanto il suo stesso commercio ittico fosse ostacolato da tasse e balzelli imposti dal governo.
Il fatto scatenante della ribellione di Masaniello fu l’introduzione di una nuova imposta sui carri di ortaggi diretti al mercato. I venditori di erbaggi si rifiutarono di corrisponderla e ciò portò a una veemente manifestazione nella piazza del commercio. Masaniello, con il suo carisma e la sua capacità di sollevare le folle, riuscì a cementare gli ammutinati sotto un solo appello: “Viva il re di Spagna, abbasso il malgoverno”.
L’insurrezione di Masaniello si diffuse in un baleno per le vie di Napoli. I palazzi nobiliari e quelli delle imposte furono espugnati, mentre le prigioni furono prosciugate e riempite dalle mogli e dai figli dei nobili. Masaniello divenne il duce incontrastato della rivolta e fu nominato “capitano generale del fedelissimo popolo napoletano”.
Grazie al suo carisma e alla sua eloquenza, Masaniello riuscì a imporsi al punto che il potere fu costretto a patteggiare con lui. Il condottiero del popolo giunse persino a porre il veto sugli ordini impartiti dal viceré di Napoli e fu ricevuto solennemente a palazzo unitamente a sua moglie Bernardina.
Tuttavia, qualcosa andava storto. Ossessionato dall’idea di un complotto ai suoi danni, Masaniello iniziò a perdere il controllo delle sue azioni. Dormiva poco, mangiava poco e beveva molto, finendo per compiere gesti illogici e ordinare esecuzioni estemporanee dei suoi oppositori. Alcuni storici sostengono oggi che potesse soffrire di disturbo bipolare.
Pazzo o no, è assodato che Masaniello aveva ragione circa la congiura. Il 16 luglio, il rivoluzionario fu assassinato con cinque colpi d’archibugio, con l’approvazione del suo “amico” Genoino, timoroso delle sue posizioni sempre più radicali (e che fu compensato con una promozione nell’ordine forense napoletano). Il suo corpo decapitato fu poi strascicato per le vie della città e gettato tra i rifiuti.
Nonostante il tragico epilogo, Masaniello entrò immediatamente nel mito come eroe. La sua figura divenne oggetto di venerazione e mitizzazione da parte del popolo napoletano. Le donne dell’epoca lo invocavano quale redentore e la sua salma fu ritenuta sacra.
L’ammutinamento di Masaniello ebbe un impatto significativo sulla società napoletana. Fu un momento di grande mobilitazione popolare, in cui le classi più umili si unirono e insorsero contro l’oppressione e le ingiustizie del sistema. La ribellione di Masaniello segnò uno spartiacque nella storia di Napoli e ispirò successive lotte per la libertà e l’uguaglianza.
Nonostante la fine cruenta di Masaniello, il suo spirito ribelle e la sua lotta per la giustizia continuano a vivere nell’immaginario collettivo. La sua figura è diventata un emblema di resistenza e di speranza per i napoletani, un esempio di come persino un semplice pescivendolo possa sollevarsi contro le ingiustizie e sfidare il potere costituito.